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Internazionalizzazione: una sfida che vale la pena accettare

Internazionalizzazione: una sfida che vale la pena accettare

L’Italia è sempre salita agli onori delle cronache per le famose tre F: fashion, furniture e food.  Ma non solo di questo vive il Belpaese Secondo le stime  di Istat, a maggio 2022 l’export italiano è aumentato su base annua del 29,5%, con una crescita più sostenuta verso l’area Ue (+32,6%) rispetto ai mercati extra Ue (+26,1%). 

A trainare l’export sono stati principalmente i seguenti settori: metalli di base e prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti;  prodotti petroliferi raffinati, articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici; prodotti alimentari, bevande e tabacco (+28,2%).

Il made in Italy –o altresì il prodotto concepito in Italia- rimane elemento di appeal mondiale: leggendo le statistiche ci si imbatte in aree peculiari di eccellenza come Leggendo le statistiche si colgono eccellenze in settori peculiari come il cotto toscano, i tubi, (10,98%)  la pelletteria (14,44%)  e il marmo.
Ma per accettare la sfida dell’internazionalizzazione in un mondo globalizzato, l’impresa deve prepararsi. 

Chi internazionalizza cresce di più?

Secondo un’analisi Cribis del periodo 2018-20, quindi un momento a tratti critico poiché legato al blocco pandemico,  il 21,4% delle aziende con alta propensione all’internazionalizzazione ha registrato ricavi in crescita e più di un’azienda su cinque è cresciuta per tre anni di seguito. 

L’82,8% di queste imprese era infatti in utile nel 2018, 81,8% in utile nel 2019 e 72,8% in utile nel 2020. A prova del fatto che anche in un anno difficile le aziende internazionalizzate sono cresciute.

Altro bacino interessante è l’annuario Istat Ice titolato Commercio estero e attività internazionali delle imprese 2022, che elabora anche i dati di Banca d’Italia e fornisce un quadro aggiornato al 2021 su dinamiche di interscambio merci e servizi e su flussi di investimenti diretti. 
Nel 2021 l’export aziende italiane ha toccato i 516 miliardi di euro, con un incremento in valore del 18,2%.

Secondo Istat il comparto leader è quello dei metalli e prodotti in metallo (+26%), macchinari e apparecchi (+14,7%), prodotti petroliferi raffinati (+70,5%), sostanze e prodotti chimici (+19%) e mezzi di trasporto, autoveicoli esclusi (+19,5%). 

Ma non è da sottovalutare l’eccellenza di nicchia spesso presidiata dalle pmi nazionali. 

Sfida dell’internazionalizzazione: quante imprese a controllo italiano nel mondo? E quali orizzonti per le pmi?

Le micro imprese con meno di 20 addetti sono quasi 40.000 e come dice Marco Fortis di Fondazione Edison il mondo spesso ce le invidia. Perché queste pmi giocano un ruolo fondamentale in termini di supporto alle filiere produttrici dei distretti industriali. 

Una ricerca di Adico ha manifestato le principali incertezze delle aziende italiane nel cogliere la sfida dell’internazionalizzazione. Per le piccole e medie imprese vi è l’ansia di dotarsi degli strumenti necessari per affrontare i mercati: il 60% pensa che dovrà ricorrere alle competenze di consulenti esterni mentre solo il 41% ritiene di avere in casa le conoscenze necessarie.

Le aziende che già operano all’estero citano come criticità l’individuazione dei partners locali adeguati (59%). Un altro fattore che incute timore è la complessità delle normative import export (31%), ostacoli di natura linguistica e culturale (23%), scarsa conoscenza del mercato estero (19%) e infine problemi legati alla tutela della proprietà intellettuale (18%).
Per chi non ha ancora effettuato il passo, forte è l’incertezza in merito ai partners (61%), seguita dalla scarsa conoscenza del mercato estero (58%) e dalla contrattualistica (42%). 

Rilevante la presenza di imprese a controllo italiano all’estero. Ma cambiano le scelte di localizzazione produttiva

La presenza di imprese a controllo italiano all’estero è rilevante e diffusa. 

Nel 2019 ben 24.765 controllate italiane erano presenti in 174 paesi, impiegavano 1,6 milioni di addetti e fatturavano 567 miliardi di euro. Di queste, le imprese manifatturiere erano 6.916, impiegavano quasi 866mila addetti e avevano un turnaround di 247 miliardi. 

Quanto all’export oltre 136mila operatori hanno fatto vendite di beni all’estero nel 2021. Ma come ben sappiamo, l’Italia ha una miriade di piccole medie imprese per cui cogliere la sfida dell’internazionalizzazione implica affrontare cambiamenti sstrategici, manageriali, economici. 

Però, le scelte di localizzazione produttiva stanno cambiando. 

Secondo un’indagine condotta dal Gruppo di ricerca Re4It su un campione di oltre 700 imprese, circa il 30% delle aziende che in passato ha delocalizzato, dichiara di aver già realizzato un cambiamento nella propria strategia di localizzazione, mentre il restante 55% continua a mantenere inalterata la sua scelta localizzativa. Il backshoring della produzione (totale o parziale) è stato fino ad ora scelto dal 16,5% delle imprese che avevano realizzato l’offshoring produttivo. 

In alcuni casi, si torna in patria

Più del 12% ha dichiarato di aver programmato di riportare in Italia la produzione attualmente localizzata all’estero nel medio-lungo termine (3-oltre 5 anni). Il 14%, ha invece optato per un cambio di localizzazione all’estero (nearshoring o further offshoring).

A presentare le risultanze di questa indagine in occasione dell’assemblea di Alsea a Milano è stato Stefano Elia, professore di International business del Politecnico di Milano. Dalle conclusioni emerge che il potenziamento di politiche già esistenti che favoriscono la digitalizzazione, l’Industria 4.0 e il ‘Green New Deal’ potrebbero promuovere sia il rientro delle forniture (rendendo sempre più “idonei” i nostri fornitori) sia quello della produzione (che necessita di un contesto istituzionale favorevole). 

Per favorire il fenomeno del reshoring, occorre anche affrontare a livello centrale quei problemi strutturali atavici che rendono il nostro paese da sempre meno attrattivo di altri (burocrazia, sistema giudiziario, pressione fiscale, infrastrutture, innovazione, costo del lavoro, costi dell’energia, debito pubblico).

Reshoring: chi sta riportando in Italia la produzione e perché

Secondo l’indagine condotta da Re4lt, fra i settori in cui avviene maggiormente il reshoring ci sono abbigliamento, articoli in pelle e simili, macchinari e apparecchiature elettriche. Le regioni d’Italia in cui si trovano le aziende più interessate da questo fenomeno sono (non a caso) anche quelle più industrializzate, vale a dire Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. A seguire Toscana, Marche e Piemonte.

Uno dei principali fattori alla base del reshoring è l’aumento del costo della manodopera in Paesi come la Cina, dove i salari sono cresciuti costantemente negli ultimi anni, almeno fino alla pandemia. Molte aziende hanno scoperto che è più conveniente produrre beni nei loro Paesi d’origine, dove i salari e gli altri costi sono più bassi. Ciò vale soprattutto per parecchie nazioni in via di sviluppo.

La zampata green e l’automazione tecnologica, due elementi rilevanti negli equilibri della sfida che l’internazionalizzazione pone

La tendenza al reshoring è stata guidata anche dai cambiamenti nelle preferenze dei consumatori. Poiché i consumatori sono diventati più consapevoli dell’impatto ambientale e sociale dei prodotti che acquistano, hanno iniziato a richiedere beni più sostenibili ed eticamente prodotti. Con il reshoring, le aziende possono controllare meglio le loro catene di fornitura e garantire che i loro prodotti siano realizzati in modo ecologico e socialmente responsabile. 

Un altro fattore che ha contribuito alla tendenza al reshoring è la crescente importanza della resilienza della catena di fornitura. Poiché le aziende sono diventate più dipendenti dalle catene di fornitura globali, sono anche diventate più vulnerabili alle interruzioni causate da disastri naturali, instabilità politica e altri fattori. Con il reshoring delle loro attività, le aziende possono ridurre la loro dipendenza dalle catene di fornitura globali, ed aumentare la loro capacità di rispondere alle interruzioni.

Inoltre, la crescente disponibilità di automazione e di altri progressi tecnologici ha reso possibile per le aziende produrre beni in modo più efficiente e a costi inferiori nei loro Paesi d’origine.



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Monica Camozzi

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