Il vino, dimostrazione scientifica dell’amore
Il lessico di Riccardo Cotarella mentre parla del vino, è umano. “Il vino sente. Ti restituisce. Parla”. Un’osmosi, una compenetrazione, dove l’uomo –nel passaggio dal grappolo al divino liquido- evolve, sperimenta, si innamora. Una scienza, che implica i fondamenti della relazione, quasi sentimentale.
“Il vino è un prodotto in cui la biologia la fa da padrona. Naturalmente è anche chimica, fisica, scienza in senso pieno. Ma è soprattutto biologia e la vita ha elementi anarchici che ti sorprendono e trovano la loro via spontanea, non imbrigliabile. Se dovessi fare un parallelismo direi che il vino non è un cane, fedele, asservito al padrone; è un cavallo, con la sua autonomia, quella dignità che ti rende impossibile dominarlo. Lo puoi indirizzare, non condizionare”.
Ipse dixit. E se lo dice l’enologo più importante al mondo, vale la pena ascoltare.
Parlandogli, si capisce perché Cotarella sia diventato quello che è, al punto che si sta girando un film sulla sua persona e professionalità, con testimonianze di Sting, Bruno Vespa, Massimo D’Alema, produttori francesi, spagnoli e giapponesi per la regia di Frankie Nasso (lo stesso regista che girò il film su David LaChapelle, ndr).
Le competenze tecniche di Riccardo Cotarella sono da manuale, trattandosi di scienza: 6 anni di istituto complessivi, 3 di università. Scienze agrarie, compreso il ramo vitivinicolo, con una focalizzazione finale solo su viticoltura.

L’alchimia, scienza, anima, a fare la differenza
Ma qui è il fattore umano, che attiene all’anima, a fare la differenza. “Pensare che volevo fare il geometra. Mio padre mi diede questa dolce imposizione: sarai enologo. Lui faceva vino, a ridosso della Toscana ma oltre il suo confine, cosa che diminuiva il valore teorico del prodotto. E io a soli 14 anni mi innamorai perdutamente della natura, della campagna, di quel miracolo che sovrintende la trasformazione da grappolo a vino”.
Folgorato sulla via della vigna, Cotarella ebbe il suo battesimo del fuoco. Appena uscito da scuola andò a lavorare per la cantina Vaselli, che esportava milioni di bottiglie in USA, come quarto enologo.
“Avemmo un problema molto difficile da risolvere con il vino, oltreoceano e intervenne mio padre con la sua intuizione. Un tempo non c’erano le tecnologie attuali e mio padre diede una soluzione che pareva l’uovo di Colombo, invitandomi a ragionare. Restai nella cantina dal 69 all’81, come direttore”.
Il fattore stocastico, la cultura
dei territori
La voglia di sperimentare–unitamente all’errore, che ti cambia la percezione delle cose- fece emergere il fattore che chiameremmo stocastico, avulso dalla scienza: l’attitudine personale, l’umiltà.
“Ricordiamo che la natura ci ha dato l’uva per mangiarla o per fare aceto, frutto dell’attivismo di certi batteri naturalmente contenuti nel mosto. La trasformazione in vino è opera dell’uomo e in questa relazione intervengono molteplici fattori. Quando dico che il vino parla, risponde alle nostre domande e molto spesso non come noi vorremmo, intendo che fare il Nerello in Abruzzo o il Sangiovese in Piemonte o il Nebbiolo in Calabria produce storture. Perché la natura comprende che un’altra mano, un’altra essenza, sta trasformando il grappolo. Ad esempio è sorprendente come nessun vitigno italiano portato fuori abbia le stesse performance, mentre i vitigni francesi ovunque vengano collocati producono un buon risultato perché sono meno influenzati dal terroir”.
Come un sarto, Cotarella modula le misure sul corpo del territorio e delle individualità, anche culturali che lo abitano.
“Quando vado in Giappone mi sforzo di pensare come loro, di approcciarmi a vino e uva come un neofita, vagliando non solo clima e terreno ma attitudini. I giapponesi hanno una cura maniacale del dettaglio, basti pensare che ho fatto vino nel Nord del Giappone, dove d’inverno si va a 20 sotto zero e questi imprenditori sciolgono la vite dal tutore, la sdraiano a terra dove la neve fa da cuscinetto termico, a primavera la tirano su e a novembre la rimettono sotto. Altresì, nel Sud tropicale del Giappone la proteggono con ombrellini. Poi, con lo stesso approccio passo alla Columbia Valley, sulle montagne dietro a Seattle, alla Sicilia. È un salto culturale continuo”.
L’enologo, ieri miscelatore chimico
oggi star
Lo scandalo del metanolo, a metà anni Ottanta, cambiò per sempre i destini della professione enologica. Da oscuro miscelatore l’enologo diventa protagonista dalla personalità tecnica e emozionale. Fondamentale, per ogni azienda che voglia performare e non perdere denaro.
“Oggi il consumatore è persona acculturata, sa quello che vuole è conscio di quello che paga e non si accontenta della storiella ma vuole informazioni sul tipo di terreno, il clone della varietà, le radici territoriali. La trasformazione culturale che il vino –e le professioni ad esso legate- ha vissuto sono testimoniate dal fatto che oggi nei ristoranti i sommelier abbinano pietanza e vino partendo da quest’ultimo”.
Sul fatto poi che si beva di meno c’è un mito da sfatare. Bere e degustare sono due cose diverse. “Se conosco l’uva, la storia del produttore, il percorso che l’enologo ha fatto sto vivendo una esperienza completa, di grande valore. La degustazione non passa per il numero di bottiglie ma per la qualità dell’esperienza. Negli anni Ottanta il consumo era di 80-130 litri pro capite, oggi è di 30 ma sono esperienze diverse. Il vino racconta un territorio e la sua vita. Non c’è luogo che non abbia il suo campanile e la sua uva: l’elemento che cambia sono le persone”.
Un’altra ottima notizia è che i giovani non sono assolutamente staccati dal vino, anzi. “Io insegno in università e le nostre facoltà hanno spesso potenziali iscritti superiori al numero che possiamo ospitare.
Dall’economia alla storia personale e territoriale è un bel ventaglio di apertura. Incluso il fascino dell’imponderabile.
“Potremmo mai immaginare un matrimonio o un compleanno accompagnati da acqua”?