Lucia Leonessi, direttore generale di Confindustria Cisambiente, batte sul tasto da tempo e ribadisce il concetto anche dagli scranni di Ecomondo, la fiera che ha avuto luogo a Rimini e che ha fatto il punto sulla green economy il 5 e 6 novembre:
“Continuo a credere nell’importanza strategica di aree come il tessile, che produce due milioni di tonnellate in un anno e che può essere un bacino immenso di CSS, ovvero i combustibili solidi secondari ottenuti da rifiuti non pericolosi. La valorizzazione del rifiuto potrebbe essere un serbatoio di autonomia energetica, ma è una battaglia che si consuma su territori di burocrazia complessi”.
Qui il tempo stringe, perché l’obbligo giuridico di gestire i rifiuti tessili, secondo la direttiva 2008/98/Ce, parte dal primo gennaio 2025. L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha fatto il punto sulla produzione dei rifiuti tessili, sui sistemi di raccolta e la capacità di trattamento, nonché sulla classificazione dei prodotti tessili in Europa.
L’Agenzia evidenzia come il tasso medio di raccolta differenziata dei rifiuti tessili in Europa è solo del 12% (il che significa che il resto finisce nei rifiuti urbani): i dati migliori arrivano da Lussemburgo e Belgio (50%), mentre l’Italia è sotto il 15%.
L’EPR (Extended Produced Responbibility) ci aspetta al varco
L’EPR è un principio introdotto dalla Direttiva (UE) 2018/851 secondo il quale i produttori di beni commercializzati nell’Unione Europea sono tenuti a contribuire alla gestione dei rifiuti derivanti dai loro stessi prodotti.
Gli obblighi per i produttori della filiera tessile comportano la responsabilità estesa del produttore al fine di rendere le case di moda responsabili per la gestione dei capi e accessori giunti al termine del loro ciclo di vita.
Questo significa coinvolgere anche la progettazione dei prodotti, prevedendole modalità di smaltimento a fine utilizzo e riducendo la quantità di materiali utilizzati e di rifiuti creati dai brand stessi. La direttiva prevede lo sviluppo di misure per il riciclaggio tramite la progettazione stessa e la collaborazione con le autorità competenti per tutti i marchi di moda, al fine di garantire l’effettiva attuazione di tali disposizioni.
In Italia, per l’EPR tessile è prevista la creazione di un sistema multi consortile (simile a quello su Raee e pneumatici), dove per produttore si intende chi anche tramite terzi fabbrica, immette sul mercato e importa uno dei prodotti tessili, in pelle e calzaturieri. Per questo è stato istituito il CORIT, (centro di Coordinamento per il Riciclo dei Tessili), che dovrà coordinare e garantire il ritiro dei rifiuti per il raggiungimento degli obiettivi.
L’eccellenza di Manteco sul riciclo della lana
La filiera tessile italiana pare un po’ dormiente. Ma al suo interno ci sono veri e propri fari di luce sostenibile. Uno di questi, intervenuti alla conferenza organizzata da Confindustria Cisambiente a Rimini, è la famiglia Mantellassi, titolare di Manteco.
La lana riciclata di questa azienda, come sottolinea Matteo Mantellassi, impatta il 95% in meno della lana vergine. “Abbiamo fatto studi con dati scientifici su lane riciclate Mwool e lane vergini Reviwool da recupero, ottenendo questo dato. Riusciamo a dare dati oggettivi ai nostri consumatori e da uno studio pionieristico abbiamo calcolato che la nostra lana riesce a essere riciclata sei volte.
C’è ancora tanto da lavorare nel settore, per questo ci dobbiamo basare molto sui dati, perché bisogna capire come si può operare per impattare il meno possibile”.
Quella che per il fondatore fu una necessità, motivata dalla scarsità di materia prima del 1943, per i posteri è diventata prassi.
Presente al meeting di Ecomondo anche Chiara Boni, storicamente impegnata in questo senso. Già nel 2012 appaiono sue interviste dove il tema della sostenibilità e centrale e già a quel tempo la stilista misurava i consumi di energia, di carta e cartone, metano, acqua e coloranti in fase produttiva, cercando di ridurli.
La sua Petit Robe è la prima azienda italiana ad aver ottenuto la PEF. “Tutto ha un impatto ambientale ma, grazie alla certificazione PEF, siamo in grado di misurare quanto i nostri processi produttivi pesano realmente sull’ambiente. I nostri capi possono essere tranquillamente lavati in acqua senza detergenti chimici e non stirati rendendoci in parte già piuttosto virtuosi”.
Re&Up, eccellenza a capitale turco nel riciclo (totale) di cotone e poliestere
In questo caso la Turchia, con Sanko holding – società da quasi 3 miliardi di fatturato con una divisione tessile che produce oltre 200 milioni di metri – si è dimostrata molto lungimirante, creando un’azienda di diritto olandese a capitale turco. Re&Up è un ecosistema unico che ricicla cotone, poliestere e polycotton con una tecnologia proprietaria, che fra l’altro decolora completamente le fibre sia di cotone sia di poliestere.
Negli studi, lo chiamano il “cellulose gap”: la popolazione mondiale aumenta, cresce la necessità di terreno coltivabile così come cresce la richiesta di fibre ed esistono enormi problemi di inquinamento legati alla produzione di cotone.
“Al 2030 dovremo capire se fare crescere cotone o dare da mangiare alla gente. Il cotone desertifica. Non si può più usare la fibra vergine – spiega Marco Lucietti, , Head of Global Marketing and Communication.
Di qui, la necessità di trovare soluzioni effettive. E di qui la decisione strategica di creare Re&Up con notevole grado di lungimiranza da parte del fondatore di Sanko holding. In Re&Up, se la stoffa è maggioranza cotone, dalla lavorazione esce una fibra di cotone e un chip di poliestere bottom grade (destinato alla produzione di bottiglie). Se l’80% è poliestere il procedimento è prima chimico e poi meccanico: dal procedimento esce un chip di poliestere Textile Grade e polvere di cotone e cellulosa.
“A oggi, fatto 100, il 75% dei tessuti è cotone e poliestere. I numeri attuali sono 80.000 tonnellate di riciclo annue”. Per aumentare la capacità, Sanko sta creando un secondo impianto da 200.000 tonnellate entro il 2025.
“Nel 2030 è previsto che questi impianti coprano il 15% del riciclo tessile europeo e nello stesso anno aspiriamo a 1 milione di tonnellate di capacità di riciclo. Apriremo anche in Italia e stiamo valutando altri paesi europei””.
Lucietti spezza una lancia a favore del poliestere in quanto “fibra riciclabile milioni di volte. Per ogni cosa bisogna sempre valutare la destinazione d’uso: non vado a correre con una maglia di cotone, così come non indosso una t-shirt di poliestere sotto la giacca”.
Purtroppo, un carico di abbigliamento in poliestere puà comportare il rilascio di 700.000 fibre di microplastica in mare.
“Ma se la fibra e di conseguenza i tessuti sono prodotti nella maniera corretta, il rilascio di microplastiche è infinitesimale ed è proprio questo uno degli obiettivi di Re&Up”
Un equilibrio difficile
Alcune stime indicano che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri d’acqua. Nel 2020 il tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e del suolo. In quell’anno sono stati necessari 9 metri cubi d’acqua, 400 metri quadri di terreno e 391 kg di materie prime per fornire abiti e scarpe a ogni membro della Ue.
Il problema non è più rimandabile e il fast fashion certo non è servito a migliorare le cose. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente nel 2020 l’emissione di CO2 legata alla produzione di abbigliamento è stata pari a 280 kg per persona. Serve un cambio di mentalità, oltre che di processi.
Da qui, la decisione europea di adottare misure più rigide al fine di ridurre l’eccesso produttivo e di consumo in ambito tessile. Degli oltre tre milioni e 600.000 capi spediti ogni anno in Kenya.
Ad esempio, fino a uno su tre contiene plastica ed è di qualità così bassa da venire gettato o usato per scaldare acqua, per cucinare e persino per alimentare centrali elettriche…Ogni anno vengono gettati in discarica 11,3 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Sostenibile, è un aggettivo che perde –per ora- di senso.