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Il Fast Fashion: l’impatto di una moda veloce e le sue conseguenze globali

Negli ultimi decenni, il fast fashion ha rivoluzionato l’industria dell’abbigliamento, offrendo collezioni sempre nuove a prezzi competitivi. Marchi come Zara, H&M e Shein sono diventati simboli di questo modello di business, che si basa su cicli produttivi rapidissimi, spesso di sole poche settimane, per soddisfare la costante domanda dei consumatori (solo il colosso cinese dal 1 gennaio al 22 agosto del 2023 ha realizzato 175milioni di download in tutto il mondo).

Questa apparente democratizzazione della moda ha, però, un costo elevato, non solo per l’ambiente e i lavoratori, ma anche per la salute dei consumatori stessi. Dietro ai capi economici, si nasconde infatti un sistema produttivo altamente insostenibile e dannoso.

I numeri del fast fashion: un mercato in continua espansione

Il fast fashion è un mercato in forte crescita a livello globale. Secondo le stime di Statista, il valore del mercato del fast fashion ha raggiunto circa 91 miliardi di dollari nel 2021, con una previsione di crescita a 133 miliardi di dollari entro il 2026. Questo modello di business si basa su produzioni in larga scala e su prezzi bassi, che spingono i consumatori ad acquistare di frequente e in grandi quantità. Si stima che il ciclo di vita medio di un capo di abbigliamento sia sceso a meno di 35 utilizzi prima di essere scartato o sostituito.

Nel 2020, i marchi di fast fashion hanno prodotto circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, con un tasso di riciclaggio inferiore al 1%. In parallelo, il consumo di abbigliamento è aumentato, passando da 62 milioni di tonnellate nel 2010 a una previsione di 102 milioni di tonnellate entro il 2030, come riportato dall’Ellen MacArthur Foundation.

L’impatto ambientale del fast fashion

Uno degli aspetti più critici del fast fashion è il suo impatto ambientale. La produzione di capi a basso costo richiede ingenti quantità di risorse naturali e genera una quantità significativa di inquinamento. L’industria tessile è responsabile del 10% delle emissioni globali di CO2, secondo i dati delle Nazioni Unite, contribuendo significativamente ai cambiamenti climatici. Questo la rende la seconda industria più inquinante al mondo, subito dopo quella petrolifera.

L’utilizzo di materiali sintetici come il poliestere, derivato dal petrolio, contribuisce ulteriormente all’inquinamento: questi tessuti rilasciano microplastiche durante i lavaggi, che finiscono nei fiumi e negli oceani, minacciando la vita marina. Solo nel 2016, secondo uno studio di Greenpeace, il lavaggio dei capi sintetici ha rilasciato circa 500.000 tonnellate di microplastiche negli oceani.

Inoltre, il consumo idrico dell’industria tessile è elevatissimo. Per produrre una sola t-shirt in cotone, sono necessari 2.700 litri d’acqua, l’equivalente del consumo di una persona per due anni e mezzo. La coltivazione intensiva di cotone, insieme all’uso massiccio di pesticidi e fertilizzanti chimici, ha provocato la desertificazione di vaste aree agricole, come nel caso del Mar d’Aral, ridotto ormai a un deserto salato a causa della coltivazione del cotone per l’industria tessile.

Il danno per la salute: cosa nasconde il fast fashion?

Oltre ai problemi ambientali e sociali, il fast fashion rappresenta un rischio per la salute dei consumatori. I capi prodotti a basso costo sono spesso trattati con sostanze chimiche dannose, utilizzate per migliorare la durabilità, il colore o la resistenza delle fibre. Questi composti, che includono ftalati, metalli pesanti e formaldeide, sono stati associati a vari problemi di salute, tra cui allergie, dermatiti da contatto e persino disturbi endocrini.

Secondo uno studio condotto dall’Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA), molti capi di abbigliamento venduti dalle principali catene di fast fashion contengono livelli elevati di sostanze chimiche che superano i limiti stabiliti dalla legislazione europea. Ad esempio, gli ftalati, utilizzati come ammorbidenti per i tessuti, possono interferire con il sistema endocrino, provocando disfunzioni ormonali, mentre la formaldeide è stata classificata come cancerogena dall’OMS.

Inoltre, l’utilizzo di coloranti azoici, che contengono sostanze cancerogene, è ancora comune in alcune produzioni a basso costo, soprattutto in Paesi con regolamentazioni meno rigide. Il contatto prolungato con questi tessuti può esporre i consumatori a rischi per la salute, in particolare bambini e soggetti con pelle sensibile.

Il costo sociale del fast fashion

Un altro aspetto poco discusso è l’impatto sociale della produzione di fast fashion. Le aziende del settore spesso delocalizzano la produzione in Paesi in via di sviluppo, dove i costi di manodopera sono bassi e le tutele per i lavoratori scarse o inesistenti. Molti lavoratori dell’industria tessile operano in condizioni disumane, con orari massacranti e salari ben al di sotto della soglia di povertà (si pensi al crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, che ha provocato la morte di 1.134 operai).

Le pressioni per produrre capi a costi sempre più ridotti portano spesso a tagli sui salari e sulle condizioni di lavoro, generando sfruttamento e violazioni dei diritti umani. Oltre a questo, si registrano frequenti casi di lavoro minorile nelle filiere del fast fashion, dove i bambini sono impiegati nelle fasi di lavorazione e confezionamento dei capi.

L’importanza del second hand come alternativa

Ecco perché è importante capire che un’alternativa al fast fashion può esistere. Come conferma anche la società di ricerca BVA DOXA una buona pratica è cercare di acquistare in modo più consapevole.

L’obiettivo deve essere quello di smettere di aggiungere al carrello capi “usa e getta” e puntare sulla qualità del prodotto o meglio ancora imparare a dare una seconda vita ai propri outfit. Infatti, dando a un vestito una seconda vita si riducono le sue emissioni di CO2 di circa il 79%.

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