Upcycling ridare valore ed evitare 92 tonnellate di rifiuti tessili
Si chiama upcycling e rappresenta una piccola via di uscita al fenomeno preoccupante della sovrapproduzione tessile. Oggi, parlando di sostenibilità e di problema ambientale, non si può ignorare che l’industria della moda produce oltre 92 milioni di tonnellate di scarti, che dovrebbero raggiungere 102 milioni di tonnellate nel 2030. Di questi, solo il 12% è riciclato o riutilizzato, mentre il 73% è bruciato, seppellito, o accumulato in enormi discariche, che si trovano generalmente nel cd. terzo mondo.
Non è sfuggito alla panoramica satellitare, l’accumulo di indumenti visibile da migliaia di chilometri nel deserto di Atacama, in Cile.
Oltre a questo, l’industria della moda copre fino al 10% delle emissioni globali di CO2. Inoltre, gran parte degli indumenti venduti dalle catene di fast fashion sono composti da poliestere, fibra di sintesi chimica tratta da combustibili fossili perciò, in sostanza, microplastica: esattamente il materiale che finisce in mare ogni anno.
Si calcola che entro il 2050, di questo passo, nelle acque del globo ci saranno più plastiche che pesci.
Last but not least, l’industria della moda è una delle più dispendiose in termini di risorse idriche: nella fattispecie, essa è responsabile di circa il 20% dello spreco planetario di acqua.
Per dare qualche numero: la moda consuma 79 miliardi di metri cubi di acqua dolce l’anno per produrre 92 tonnellate di rifiuti nello stesso lasso di tempo e generare 1,2 miliardi di tonnellate di CO2.
Ogni secondo, viene smaltito un camion pieno di abiti
Secondo il report della Ellen MacArthur Foundation “A new textiles economy: Re-designing fashion’s future” la moda spreca 500 miliardi di dollari l’anno e rilascia mezzo milione di microplastiche nell’ambiente. Solo l’1% di indumenti viene riciclato.
Ed è qui che entra in gioco l’upcycling: non si tratta di mero riutilizzo ma di una elaborazione che dà nuova vita all’oggetto, grazie a elementi decorativi, modifiche, combinazioni con altri prodotti.
Il fenomeno è in grande crescita.
La creativa Tega Akinola è arrivata addirittura a creare un paio di scarpe utilizzando vecchi cavi Ethernet, una mini borsa partendo da una vecchia felpe Patagonia, una décolleté a punta coperta di calzini Nike lasciati da troppo tempo in fondo al cassetto.
Alessandra Alfieri, con il suo brand Helps Nature, ha recuperato tessuti di pregio con una tecnica di patchwork creativo o utilizzando materiali sostenibili.
Secondo una recente indagine di Boston Consulting Group, il valore del second hand nel settore della moda e degli accessori di lusso è già pari al 5% delle vendite totali e crescerà fino ad arrivare al 40% nei prossimi anni.
Upcycling: il problema della proprietà intellettuale
Ridare valore attraverso l’upcycling è apprezzabile, nonché tema dibattuto in termini di proprietà intellettuale. Al Congresso di AIPPI (Association Internationale pour la Protection de la Propriété Intellectuelle) tenutosi a Istanbul a ottobre, se ne è parlato.
Spesso, vengono infatti riutilizzati e trasformati capi o bijoux o ancora accessori di famose griffe o marchi mondialmente noti come Burberry, Chanel, Levi’s. E si dibatte, a questo proposito, sulla linea di demarcazione che renda legittimo l’uso di un altro brand riconoscibile.
Famoso, il caso dei bijoux targati Shiver, che utilizzavano bottoni e minuterie marcate Chanel e per questa ragione i produttori sono stati citati in giudizio. Altrettanto nota, l’azione promossa da Levi’s verso la società Coperni, rea di avere creato pantaloni utilizzando linguette in tessuto simili alle proprie e di aver effettuato una rielaborazione che manteneva la classica impuntura e avrebbe potuto trarre in inganno il consumatore.
Trattasi, qui, di upcycling ma con problemi legati alla proprietà intellettuale: non a caso controversie analoghe sono state promosse anche da Nike, Rolex e Ralph Lauren, tutte fondate sui diritti esclusivi vantati da ogni brand e dal cosiddetto principio di esaurimento (first sale doctrine” nel diritto americano).
Quali regole valgono per l’upcycling?
Secondo la normativa nazionale, con la registrazione del marchio vengono riconosciuti in capo al titolare una serie di diritti, tra cui il diritto di utilizzarlo in via esclusiva e di impedirne l’uso a chiunque non sia autorizzato. In base al principio di esaurimento del marchio, una volta che il titolare mette i beni in commercio non potrà più opporsi ad ulteriori e successive commercializzazioni degli stessi sul mercato.
L’upcycling è fenomeno recente e in alcuni casi la le caratteristiche del manufatto terzo traggono in inganno il consumatore.
Secondo l’art. 15 della Direttiva UE 2015/2436 e 5 c.p.i., al titolare del marchio è consentito opporsi all’ulteriore commercializzazione del prodotto quando sussistano “motivi legittimi”.
L’art. 5 c.p.i. prevede infatti che “1. Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo”. Il comma 2 stabilisce però che tale principio non trova applicazione “quando sussistano motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio. […]”.
Su questo, gli orientamenti giurisprudenziali sono ancora variegati anche perché obiettivo dell’upcycling è riutilizzare prodotti usati che altrimenti diventerebbero rifiuti.
Per evitare controversie spiacevoli, dovrebbero valere alcune regole auree, in primis il fatto che non deve essere ingenerata confusione nel consumatore e che non devono esservi danni alla reputazione del marchio, in caso vengano utilizzate parti di indumenti o accessori griffati.
Inoltre, poi, il bene upcycled deve essere commerciabile nel settore specifico di destinazione.