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Il problema non è il franchising, bensì la perdita d’anima del brand

Il problema non è il franchising, bensì la perdita d’anima del brand

Benetton annuncia la chiusura di oltre 400 punti vendita, molti dei quali in franchising. Fa specie che una delle insegne chiave del modello chiamato franchising, rinunci  a ciò che ha determinato la genesi di un successo commerciale. 

Ma il problema è il franchising come strumento o risiede in altro?

Ad analizzare il caso è un giovane imprenditore, che ha esplorato il franchising dapprima personalmente, poi come manager, per decidere di dedicarsi allo sviluppo di reti, fondando la società Reting. 

Il caso Benetton, seppur doloroso, offre importanti spunti di riflessione per chi opera nel mondo del franchising o vorrebbe farvi parte, e sicuramente è bene analizzare nel dettaglio cosa sia successo – commenta  ToscoNegli anni ’80 e ’90, Benetton ha costruito il proprio successo su una forte identità di marca, grazie a campagne pubblicitarie iconiche firmate da Oliviero Toscani. Queste campagne non si limitavano a vendere abiti, ma promuovevano valori universali come inclusività, diversità e diritti umani. Oggi, però, il brand sembra aver perso quella voce unica che lo rendeva speciale, scegliendo un posizionamento più neutrale e meno distintivo. E la prima lezione chiave che emerge dalla vicenda è proprio questa: un marchio senza anima non può costruire una connessione duratura con i consumatori”.

L’identità di marca, sulla quale si sviluppa la comunicazione con il consumatore, rimane un punto cruciale: altri format, come Camicissima o Miriade, ci dimostrano che il modello distributivo funziona quando mantiene i suoi capisaldi. Un brand deve mantenere un messaggio forte e autentico. 

La gestione del modello: quella con il franchisee è una relazione, non un rapporto di forza

Secondo l’analisi realizzata da Enrico Tosco, un altro aspetto cruciale della crisi è legato alla gestione del modello di franchising. Benetton ha imposto agli affiliati condizioni contrattuali spesso rigide, come obblighi di riassortimento e acquisti forzati di arredamenti costosi, che hanno messo in difficoltà molti franchisee. In alcuni casi, le decisioni venivano prese centralmente, senza tenere conto delle esigenze del mercato locale, portando alla chiusura di molti punti vendita“Questo ci insegna che il franchising deve essere una partnership, non una relazione sbilanciata. Senza ascolto e supporto ai propri affiliati, un franchisor rischia di perdere la fiducia e la sostenibilità del sistema”.

Gli affiliati sono partner strategici. Come tali devono sentirsi sostenuti. 

Naturalmente, non va sottovalutata la flessibilità in un mercato mosso dalle logiche del fast fashion, dove insegne come Zara, Primark, H&M, rivoluzionano spesso gli assetti basandosi su velocità, comunicazione omnichannel, accessibilità, rinnovo frequente delle collezioni. 

La crisi di Benetton è un richiamo alla necessità di evolversi e di ascoltare il mercato ed i propri clienti, mantenendo però salde le proprie radici e i propri valori. Con una strategia di rilancio ben strutturata, il brand potrebbe tornare a essere un simbolo di innovazione e creatività”. 

Il mercato italiano: giù abbigliamento e casa. E apertura verso affiliati multi unit

Il franchising in Italia continua a mostrare un trend di crescita, con un aumento del giro d’affari del 9,9%, sfiorando i 34 miliardi di euro (dati Assofranchising)

Cresce nel corso del 2023 anche il numero di punti vendita in franchising, con un’accelerazione superiore rispetto al trend registrato in passato (7,6% contro 2,2%). Parimenti cresce il numero totale di punti vendita, raggiungendo i 65.806 (+4.644 unità) e il numero degli addetti occupati, che con 34.919 unità in più, si attesta a un totale di 287.767. 

Gli elementi che hanno caratterizzato la crescita sono riconducibili in particolare agli investimenti attuati per coinvolgere nuovi franchisee, in particolare da parte dei grandi brand e la creazione di nuove insegne. 

Ci sono settori in ascesa, come cura delle persona e benessere, ristorazione. Si confermano come zoccolo duro i business che richiedono importi tra 20 mila e 50 mila euro. Inoltre, aumentano i brand che prediligono una durata del contratto superiore a cinque anni. 

Il mercato mostra una netta predilezione per affiliati multi unit, ovvero franchisee con diritto di operare attraverso più di una unità o punto vendita all’interno di un’area. I franchisee che scelgono di diversificare infatti, anche attraverso più marchi, gestiscono meglio il rischio di impresa e affrontano in maniera più strutturata l’organizzazione, la pianificazione finanziaria, la comunicazione. 

Capitale o competenze?

La scelta fa capitale e competenze è una scala di grigi, dove il bianco rappresenta le competenze e il nero il capitale. La chiave sta nel capire quale gradazione di grigio è più adatta al franchising che vogliamo creare. Un franchising può essere orientato verso il capitale, come il caso Mc Donald’s, che richiede principalmente investimenti economici, oppure può essere orientato alle competenze specifiche come nei settori che richiedono una forte expertize professionale. 

Tosco evidenzia che questa scelta dipende dal contributo che si vuole ottenere dal franchisee. Se si cerca qualcuno che apporti un forte contributo operativo e strategico è importante valorizzare le competenze. 

Gli elementi cruciali restano, oltre alla capacità di comunicazione on e off line e il franchising plan che tenga conto delle prerogative di ogni singolo mercato, domandarsi “chi è il mio franchisee”. Al pari, è rischioso affidarsi a master franchisee senza conoscere bene un mercato: ogni paese ha cultura e prerogative uniche, che richiedono un adattamento del format aziendale. 

La via primaria per sfruttare quella che resta una gallina dalle uova d’oro è la duttilità. 

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