Allarme “carewashing”: boom del mercato globale del benessere aziendale, che raggiungerà 95,8 miliardi di dollari nel 2028 (+37% in 4 anni)
Migliorare la qualità della vita e il benessere dei dipendenti sono gli obiettivi dei programmi di “corporate wellness” che i datori di lavoro pianificano e finanziano. Questi progetti, che spaziano dallo screening sanitario al supporto psicologico, fino a misure di flessibilità come lo smart working, rappresentano un mercato che attualmente vale 69,92 miliardi di dollari e si stima raggiungerà i 95,78 miliardi nel 2028, con un tasso di crescita annuale composto (CAGR) dell’8,2% e un incremento di circa il 37% in 4 anni, come evidenzia il recentissimo report di The Business Research Company.
Tuttavia, se da un lato aumentano gli investimenti nel benessere dei lavoratori, dall’altro le loro condizioni di salute, soprattutto mentale, mostrano segnali di peggioramento, evidenziando un disallineamento tra le risorse stanziate e l’effettiva efficacia delle iniziative proposte. Ecco che quindi si parla di “carewashing”, un termine che indica la discrepanza tra la retorica dell’azienda sulla cultura della cura e la reale esperienza quotidiana dei dipendenti: alcune aziende tendono sostanzialmente a costruire un’immagine di realtà attenta al benessere dei propri dipendenti, seppure non sempre supportata da azioni concrete in tal senso.
«Questa mancanza di coerenza è molto spesso la causa dell’insoddisfazione delle persone – commenta Marika Delli Ficorelli, Head of HR di Zeta Service, azienda italiana specializzata nei servizi HR e payroll e pluripremiata in termini di welfare e gestione flessibile dei dipendenti – Ad esempio, promuovere un workshop sulla salute mentale nel quale vengono fornite indicazioni su come stabilire confini appropriati tra lavoro e vita privata e, al contempo, non monitorare i carichi di lavoro, inducendo le persone a sacrificare il proprio tempo personale per rispondere a scadenze serrate, mostra come un’iniziativa potenzialmente virtuosa, possa al contrario rivelarsi un boomerang per l’azienda che l’ha promossa.
La fiducia verso il management e la capacità di guardare al proprio futuro con positività vengono drasticamente compromesse, rendendo inefficaci anche le migliori iniziative di benessere».
Un disallineamento, dunque, che si riflette nella crescente sfiducia verso le politiche dichiarate dai datori di lavoro: secondo un’indagine Gallup, la percentuale di lavoratori che a livello globale percepisce un sincero impegno dell’azienda verso il proprio benessere è crollata drasticamente, passando dal 49% nel 2020 al 21% nel 2024, con una riduzione del 57%. Il 79% dei dipendenti, dunque, ritiene che la propria azienda non si preoccupi davvero del proprio benessere complessivo. Infatti, negli ultimi anni, i dipendenti hanno sperimentato livelli sempre più alti di emozioni negative quotidiane sul posto di lavoro, come stress (41%), preoccupazione (38%), tristezza (22%) e rabbia (21%).
Disimpegno e demotivazione sono le conseguenze, con costi per l’economia globale di 8,9 trilioni di dollari, ovvero il 9% del PIL mondiale. Non a caso l’occupazione è associata ad alti livelli di soddisfazione quotidiana e a bassi livelli delle emozioni negative. Inoltre, venendo meno l’impegno e il benessere dei dipendenti, il turnover diventa sempre più frequente: secondo il report “State of the Global Workplace” di Gallup, i cosiddetti “quiet quitters” hanno infatti indicato che il miglioramento del benessere sul lavoro è considerato un obiettivo più importante rispetto all’aumento della retribuzione.
«La sfida è costruire un ambiente di lavoro permeato da trasparenza, coerenza e fiducia, in cui le persone percepiscano un reale ascolto delle proprie esigenze e si sentano in questo senso valorizzate, un ambiente nel quale gli obiettivi di produttività che l’azienda si pone riescano a dialogare costantemente con l’impatto che questi avranno sulle persone.
Dobbiamo infatti avere chiaro che il benessere non solo influisce sull’engagement delle persone, ma ha anche un impatto diretto sulla performance complessiva dell’azienda – commenta Delli Ficorelli – In questo senso risulta essenziale costruire una people strategy che parta dall’ascolto delle persone e che guidi la realizzazione di azioni che sappiano rispondere agli specifici bisogni». Tra le azioni concrete che Zeta Service suggerisce di perseguire ci sono il coinvolgimento delle persone, l’ascolto dei bisogni, la trasparenza aziendale e l’investimento in progetti a lungo termine.