Danilo Broggi ama le aziende, lo si sente da come ne parla. E le conosce in tutte le loro variabili esistenziali, poiché è stato imprenditore e start-upper, manager pubblico e privato, già Presidente nazionale di confapi, amministratore Delegato di consip e atac; è stato – ed è tuttora – consigliere di amministrazione di aziende private di diversi settori (banche e finanza, assicurazioni, industria e servizi), Presidente del Centro per la Cultura di Impresa, componente dell’Advisory Board del Dipartimento Finanza della sda Bocconi.
E non a caso cita, come ispiratori del suo lavoro, veri mentori della teoria delle organizzazioni complesse come Peter Senge, Warren Bennis, Clayton Christensen.
L’azienda, in quanto organizzazione, non è mai semplice, in quanto fatta da esseri umani che devono relazionarsi al fine dell’efficienza e di un benessere che non tocca solo il conto economico ma la vita all’interno dell’impresa.
E lo schema gerarchico, come evidenzia Broggi, in piena assonanza di pensiero con Peter Senge, non è funzionale. O meglio, la suddivisione per aree e compiti ci deve essere ma «bisogna fare sì che le singole parti dialoghino, con manager capaci di orientare comunicazione e discussione».
Il fine dell’organizzazione è apprendere
«Conta la persona, l’essere umano. Perciò l’azienda deve essere strutturata in modo tale che chiunque, ogni giorno, non esegua compiti in modo sterile ma apprenda». Naturalmente, il ruolo dei manager è cruciale. «La prima funzione è quella di leader –prosegue Broggi- e questa non la insegna nessuno».
Vi sono delle caratteristiche del leader -e anche qui ci traccia la strada il padre teorico della leadership, Bennis- che potremmo definire da manuale. Quali sono?
«Il leader è in genere molto severo con sé stesso, deve avere integrità perché il suo comportamento insegna più delle parole. Onestà intellettuale e visione sono altri due capisaldi».
La differenza fra bussola e mappa
La bussola indica una direzione, la mappa viene seguita su basi codificate. La metafora che usa Broggi è molto efficace per comprendere la differenza sostanziale fra manager e leader. Ma il processo non è impositivo né imperativo, bensì osmotico, democratico, perlomeno nelle organizzazioni moderne.
«La mappa viene costruita e modulata ogni giorno, con l’apporto di tutti, in ordine all’evoluzione tecnologica, ai cambiamenti socio economici, ai contesti nei quali l’azienda si trova a operare. L’azienda è un corpo organico che vive e anche il magazziniere può avere intuizioni e idee per rafforzarla».
Il pericolo di obsolescenza e la necessità di aggiornamento costante
«Ci troviamo in un momento peculiare, direi forse unico, per l’entità del salto tecnologico rappresentato dall’AI, da ChatGPT, dal machine learning. 20 anni fa non esisteva nemmeno Internet. Le frontiere vengono superate di giorno in giorno, ma aggiornarsi non significa spendere soldi per avere software elaborati; significa capire come usare al meglio quello strumento per alzare il valore della proposta aziendale».
L’innovazione è tale non in sé stessa ma quando porta valore
Talvolta le innovazioni sono come le mode, sembrano doverose anche quando non servono. «Devi essere pronto a coglierla, ma quando porta valore. Amo molto Clayton Christensen quando parla di innovazione “disruptive”, che crea un salto e attiva una forza competitiva straordinaria in chi sa governarlo».
Come si ottimizza l’innovazione?
«La tecnologia deve essere associata al pensiero sistemico e alla visione pratica quotidiana. Tutti all’interno dell’organizzazione devono essere sensibilizzati a questo. I manager di primo livello sono fondamentali in questo ruolo, a volte le difficoltà sono numeriche: in organizzazioni sui 600 dipendenti ho svolto il mio ruolo da “regista” molto bene, quando si arriva oltre i 10.000 è dura».
La pressione sui risultati a breve che hanno azzoppato le Best Practices
Dividendi, trimestrali, Ebt (Earning Before Taxes) non sono l’unica cosa che esiste.
«La pressione degli ultimi anni ha portato le aziende a licenziare, lavorare sui costi, perché si faceva fatica a valorizzare i ricavi come è normale quando la visione è a breve termine. Ma il quadro economico sta cambiando, c’è uno spazio enorme per il coaching, l’accompagnamento, le aziende che reggeranno saranno quelle che sono riuscite a investire con una visione ampia».
E l’Italia, con le sue prerogative manifatturiere?
L’Italia dal punto di vista industriale è un paese al traino, salvo alcuni casi noi siamo subfornitori di grandi aziende tedesche, americane e francesi. Abbiamo problemi di dipendenza energetica che elevano i costi. Il PIL pro capite in Germania è quasi il doppio, in USA più del doppio, in Svizzera tre volte tanto Usa più del doppio.
Cosa servirebbe?
«Una riflessione attenta su cosa siamo: non possiamo essere tutto, ergo manifattura, turismo, servizi avanzati. Una volta definito ciò, un piano serio di politica industriale».
Infine, «in università abbiamo bravissimi ricercatori che non sono valorizzati o utilizzati dal mondo imprenditoriale. Si sarebbero potuti creare forti incentivi sulle imprese che sottoscrivessero contratti con le università».